Greenwashing: cos’è e come riconoscerlo

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Avete presente le etichette verdi e le continue diciture bio su molti prodotti presenti ai supermercati? Quelle prive di prove scientifiche o certificazioni fatte da organi ufficiali? Bene, questo è il greenwashing, una tecnica sviluppata negli anni ’80 dalle compagnie petrolifere per mascherare le loro reali attività e il loro interessi economici. Ad oggi, ormai, la pratica si è estesa anche ad altri settori come quello dell’acqua e l’agroalimentare.

La Competition and Markets Authority (CMA) ha analizzato 500 siti web commerciali, rilevando che il 40% delle dichiarazioni ambientali sono fuorvianti , con l’utilizzo di etichette di certificazione verde su prodotti non pertinenti e/o l’omissione di informazioni pertinenti sui danni ambientali. Cosa possiamo fare per tutelarci in quanto consumatori? Come possiamo distinguere il greenwashing da ciò che non lo è?

Come riconoscere il greenwashing?

Quando ci troviamo di fronte a uno spot pubblicitario o un video informativo per capire se ciò che abbiamo davanti è greenwashing dobbiamo ritrovare uno o più di questi elementi:

  • Presenza di prefissi come eco e bio nei messaggi commerciali;
  • Linguaggio molto vago o pieno di tecnicismi e false asserzioni;
  • Abuso del colore verde e dei richiami all’ambiente e alla sostenibilità, usando anche etichette false o contenenti certificazioni contraffatte;
  • Assenza di prove tangibili – o, se presenti, dichiararle certificate quando invece non sono riconosciute da organi ufficiali – del reale miglioramento in termini di sostenibilità dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.

Le dichiarazioni ambientali in Italia

Il caso più eclatante di greenwashing in Italia è sicuramente rappresentato da Eni, accusata più volte da associazioni come Greenpeace e Legambiente per le sue pubblicità fuorvianti e per le sue strategie discutibili. Nel 2020 l’azienda ha dovuto pagare all’Autorita Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) una sanzione di 5 milioni di euro per messaggi ingannevoli relativi alla pubblicità del carburante Eni diesel+. Come è stato riportato dall’AGCM «nei messaggi si utilizzavano in maniera suggestiva la denominazione “Green Diesel”, le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela dell’ambiente, sebbene il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato “green”».

Ma Eni non è un caso isolato perché, otto anni prima, l’AGCM ha multato anche aziende del settore dell’acqua, tra cui Ferrarelle e Sant’Anna. In particolare, le pubblicità “Ferrarelle impatto zero” e “Sant’Anna Bio Bottle” facevano riferimento a una serie di caratteristiche dei loro prodotti che ne lasciavano intendere la piena compatibilità ambientale quando, in realtà, tali prodotti costituivano una parte esigua della produzione annua complessiva – circa il 7% per Ferrarelle e solo lo 0,2% per Sant’Anna. Secondo Zero Waste Europe il polietilene tereftalato (PET) – il polimero più utilizzato negli imballaggi monouso e nella produzione tessile (fibre di poliestere) – attualmente non è riciclabile al 100%. Si stima che le bottiglie immesse sul mercato (POM) comprendano solo una media del 17% di rPET.

Infine, il caso più recente che ha coinvolto ancora un altro settore – l’agroalimentare – è Fileni. La realtà dietro alla campagna Fileni bio che promuove un allevamento all’aperto (di 50 milioni di polli all’anno!) è stata smascherata con un’inchiesta di Giulia Innocenzi su Report.

Author: Alessandra Romano

Alessandra Romano nasce a Napoli nel 1999. Laureata magistrale in Comunicazione Scientifica Biomedica e con un master in Giornalismo scientifico presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza". Scrive articoli per riviste e blog scientifici.